CONDYLURA05
w/SIMON VINCENZI
2022
Edizione di 100
20 pagine
Broadsheet
supportato da Xing
6 €
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Scavando verso Londra, la talpa ha trovato l'ingresso (erotico) de La Caverna, una dark room sulle cui pareti viene proiettato un teatro d'ombra. In uno streaming che si ripiega su se stesso all'infinito.
TEXT
Can’t it be said that Socrates is not just a wise philosopher but the sexiest? Sulle pareti oscure della Caverna, un fuoco proietta giochi d’ombra mai visti, riesumando le tracce di ciò che è accaduto tra Socrate e Glaucone nelle profondità del terreno. Erotico, strano e abietto, Some shadow plays from the cave del regista teatrale e coreografo Simon Vincenzi presenta una selezione da un flusso drammaturgico infinito, generato da un’intelligenza artificiale e concepito per un teatro buio e vuoto. Un dialogo porno-filosofico, una catabasi kinky, uno strano esperimento di mind-uploading su supporto cartaceo, che trasforma la pagina in una grotta, la grotta in una tomba, e la tomba in una dark room (Plato is MORTIFIED and runs away!!!).
Scorrendo in uno streaming che si ripiega su se stesso all’infinito, l’opera segue gli incontri dei due erosofi, infiltrando talvolta altre presenze, alcune che rimandano alla mitologia e al teatro greco, altre che suggeriscono un cronotopo delirante, introducendo e moltiplicando spazi e tempi dispersi. L’ambientazione è la famosa caverna, ma gli scenari non sono affatto platonici, come l’amore dei loro protagonisti. La rappresentazione è quasi maniacale nella descrizione dettagliata degli atti e amplificata dalla natura ciclica del testo. Una Res Pubica antiplatonica, se si pensa che il filosofo, nel Parmenide, relegava peli, fango e sporcizia alla gerarchia del palpabile, ineleggibili al mondo delle Idee. Mentre Socrate, in Glaucone, insiste con dovizia di particolari radicalmente lontani dal nitore iperuranico.
L’estrema iterazione del testo evidenzia un costante sforzo del linguaggio a rendere l’immagine che si promette di mettere in scena. Un tentativo che nasconde una sorta di violenza, una forza bruta, come quella degli algoritmi. L’attenzione della lettura è continuamente frustrata da questa struttura macchinica e dalla saturazione della scrittura, come se ci si approcciasse a un oggetto più che a un testo – uno statuto che sembra riflettersi nella presenza monolitica del dialogo sulla superficie nera dello schermo. Un oggetto topologico, che si ripiega senza fine nel produrre non nuove traduzioni, ma uno stato di infinita permutazione. Un’immagine ricorsiva, la cui operazione è definire se stessa.
Subentra quindi il tema dell’osceno, quale che sia l’etimologia che si sceglie di evocare: irrappresentabile, dal fortunato ma erroneo os-skené (lontano dalla scena), oppure sporco, ob-caenum (a causa del fango), o ancora sinistro, ob-scaevinus (di cattivo presagio). Infinite palle pelose e cazzi palpitanti echeggiano nelle camere private della caverna, ma lo scenario è quello della crisi: your death is being planned, afferma Socrate in apertura della selezione; well, I am dead now, even if I am not dead, ricorda alle sue ultime battute. Continuamente evocata, la morte sembra tuttavia una condizione liminale, come se l’esistenza dei personaggi fosse colta nel suo infinito ritardo da parte del linguaggio.
Michel Foucault, nel breve saggio Il linguaggio all’infinito: Forse esiste nella parola una parentela essenziale tra la morte, l’inseguimento-ricerca all’infinito e la rappresentazione del linguaggio da parte di se stesso. Forse la configurazione dello specchio all’infinito contro la parete nera della morte è fondamentale per ogni linguaggio, dal momento in cui non accetta piú di passare senza lasciare una traccia. […] Uno spazio virtuale dove la parola trova la fonte indefinita della sua propria immagine e dove l’infinito può rappresentarsi già là come dietro a se stesso e già là come oltre se stesso.
Diversi aspetti chiamano in causa la più ampia produzione di Simon Vincenzi, dai temi ricorrenti della morte, del sesso, della profezia e della cosmologia, alla presenza iconoclasta di buchi e schermi neri, simboli dell’infinito e trasmissioni a segnale spento. Elementi che rimandano alla struttura intermediale e ipertestuale di molte sue creazioni, in cui testo, scena, performer e pubblico appaiono esistere in uno stato di crisi, privi di controllo su ciò che si viene generando in questi complessi di performance, installazioni, video e pagine web. Manifestazioni di un apparato teatrale colto nell’operazione di auto-rappresentarsi, già là come dietro a se stesso e già là come oltre se stesso. Una condizione che sembra riflettersi negli stessi personaggi di questo infinito e irrisolvibile spettacolo d’ombre al buio; in due amanti che resistono al vuoto gravitando l’orizzonte degli eventi di questo buco nero cosmico, scenico e corporeo: I am slowly fucking my way out of the cave / Can I ever escape this place?
C
Scorrendo in uno streaming che si ripiega su se stesso all’infinito, l’opera segue gli incontri dei due erosofi, infiltrando talvolta altre presenze, alcune che rimandano alla mitologia e al teatro greco, altre che suggeriscono un cronotopo delirante, introducendo e moltiplicando spazi e tempi dispersi. L’ambientazione è la famosa caverna, ma gli scenari non sono affatto platonici, come l’amore dei loro protagonisti. La rappresentazione è quasi maniacale nella descrizione dettagliata degli atti e amplificata dalla natura ciclica del testo. Una Res Pubica antiplatonica, se si pensa che il filosofo, nel Parmenide, relegava peli, fango e sporcizia alla gerarchia del palpabile, ineleggibili al mondo delle Idee. Mentre Socrate, in Glaucone, insiste con dovizia di particolari radicalmente lontani dal nitore iperuranico.
L’estrema iterazione del testo evidenzia un costante sforzo del linguaggio a rendere l’immagine che si promette di mettere in scena. Un tentativo che nasconde una sorta di violenza, una forza bruta, come quella degli algoritmi. L’attenzione della lettura è continuamente frustrata da questa struttura macchinica e dalla saturazione della scrittura, come se ci si approcciasse a un oggetto più che a un testo – uno statuto che sembra riflettersi nella presenza monolitica del dialogo sulla superficie nera dello schermo. Un oggetto topologico, che si ripiega senza fine nel produrre non nuove traduzioni, ma uno stato di infinita permutazione. Un’immagine ricorsiva, la cui operazione è definire se stessa.
Subentra quindi il tema dell’osceno, quale che sia l’etimologia che si sceglie di evocare: irrappresentabile, dal fortunato ma erroneo os-skené (lontano dalla scena), oppure sporco, ob-caenum (a causa del fango), o ancora sinistro, ob-scaevinus (di cattivo presagio). Infinite palle pelose e cazzi palpitanti echeggiano nelle camere private della caverna, ma lo scenario è quello della crisi: your death is being planned, afferma Socrate in apertura della selezione; well, I am dead now, even if I am not dead, ricorda alle sue ultime battute. Continuamente evocata, la morte sembra tuttavia una condizione liminale, come se l’esistenza dei personaggi fosse colta nel suo infinito ritardo da parte del linguaggio.
Michel Foucault, nel breve saggio Il linguaggio all’infinito: Forse esiste nella parola una parentela essenziale tra la morte, l’inseguimento-ricerca all’infinito e la rappresentazione del linguaggio da parte di se stesso. Forse la configurazione dello specchio all’infinito contro la parete nera della morte è fondamentale per ogni linguaggio, dal momento in cui non accetta piú di passare senza lasciare una traccia. […] Uno spazio virtuale dove la parola trova la fonte indefinita della sua propria immagine e dove l’infinito può rappresentarsi già là come dietro a se stesso e già là come oltre se stesso.
Diversi aspetti chiamano in causa la più ampia produzione di Simon Vincenzi, dai temi ricorrenti della morte, del sesso, della profezia e della cosmologia, alla presenza iconoclasta di buchi e schermi neri, simboli dell’infinito e trasmissioni a segnale spento. Elementi che rimandano alla struttura intermediale e ipertestuale di molte sue creazioni, in cui testo, scena, performer e pubblico appaiono esistere in uno stato di crisi, privi di controllo su ciò che si viene generando in questi complessi di performance, installazioni, video e pagine web. Manifestazioni di un apparato teatrale colto nell’operazione di auto-rappresentarsi, già là come dietro a se stesso e già là come oltre se stesso. Una condizione che sembra riflettersi negli stessi personaggi di questo infinito e irrisolvibile spettacolo d’ombre al buio; in due amanti che resistono al vuoto gravitando l’orizzonte degli eventi di questo buco nero cosmico, scenico e corporeo: I am slowly fucking my way out of the cave / Can I ever escape this place?
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